Il libro di agosto


Dove nasce la poesia, romanzo in lettura gratuita solo per pochi giorni.

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Dove nasce la poesia|Giuseppina D'Amato
Dove nasce la poesia|Giuseppina D’Amato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Incipit

1. Quando la creatura fece poesia.

Dopo il buio liquido, silenzioso e caldo, all’oscuro della differenza tra l’ombra e la luce, il caldo e il freddo, il silenzio e il suono, la creatura vide la luce.

La luminosità la accecò fuori dalle acque tiepide in cui era stata immersa per un periodo che non era tempo e non era spazio, poiché lei ignorava la cognizione dello spazio e del tempo.

Era fuoriuscita dal fluido caldo di cui si era nutrita ed era sospesa in un impercettibile spazio che era immensità e finitezza, poiché lei disconosceva l’infinito e i limiti.

Due eventi terribili erano avvenuti: aveva percepito una luminosità abbagliante, e aveva provato un fremito. Esisteva, inconsapevole di sé.

L’aria la fece rabbrividire e fu pervasa da un soffio naturale, un ritmo modulato, un alito che entrava e usciva da lei.

Udì un suono agghiacciante e ne fu terrorizzata. Non era più ammantata nella silenziosità mite e acquosa in cui, un tempo, galleggiava inconscia del tutto.

Era esposta ai respiri e agli sbuffi dell’aria, inesperta di ritmi, gemiti, canti e delle modulazioni dei silenzi e dei suoni.

Tre avvenimenti tragici si erano susseguiti: aveva sopportato una luce accecante, aveva patito il freddo e prodotto un pianto di terrore.

Lei era fluita dall’accogliente ventre ovattato e rassicurante e, ancora coperta dagli umori della terra madre, dai quali era stata generata, aveva creato una melodia con il respiro che traeva in sé.

La voce fu accolta dallo spazio. Lo spazio con un brivido la dilatò nel Cosmo, e il primo vagito intenerì e commosse la Terra.

Il giorno in cui nacque, la creatura fece poesia, sebbene ne fosse inconsapevole.

Ella ignorava che lo spazio della creatività è l’anima o qualsiasi altro luogo e non sapeva che i solchi mnesici possiedono le modulazioni del creato, e travalicano il tempo, poiché vivono in una dimensione a-temporale.

Ancora non aveva appreso o, forse, l’aveva dimenticato nell’istante in cui era stata tolta dall’humus materno, e le avevano reciso il vitale cordone, che la poesia era concepita dallo spirito dei poeti e dei pazzi e dei bambini.

Il primo canto fu l’innata aspirazione a superare i confini dello

spazio e del tempo e a vincere le ombre e il destino di morte, misconosciuto, ma già scritto in sé.

La prima preghiera fu l’inconsapevole invocazione al divino in lei. I vagiti furono energia, forza e ritmo, fino a divenire versi nella condensazione modulata di suoni dolenti e rabbiosi.

Le sonorità dei respiri atterriti segnarono l’inizio del viaggio, destinato a compiersi nel mondo della luce, delle cose tangibili e nello spirito, quel luogo sommerso e segreto di se stessa. 

2. La bambina, la madre e la neve.

I primi fiocchi iniziavano a cadere dal cielo gonfio di silenzio. Una giovane donna procedeva a rapidi passi su una strada sterrata di campagna. Aveva fretta di arrivare poiché al seno stringeva la sua piccola, avvolta nelle fasce e tra le coperte di lana tessute da arte femminile.

La neonata, ignara del mondo e di se stessa, avvertiva il calore materno, corazza protettiva fra sé e le intemperie della natura. La piccola percepiva un gran chiarore e provava sottili brividi di gioia, quando i rari cristalli si posavano lievi ed eterei sulle gote e sui pugnetti stretti.

La fioccata s’infittiva, e la donna accelerò il passo.

Ansimava. La bambina ammantata tra le fasce e nella magia della nevicata iniziò una cantilena. Non un pianto, la sua era una canzone alla neve gelida e alla madre calda e accogliente.

La nenia le accompagnò fino a destinazione, e confortò la piccola, e la natura sotto la nevicata.

PRIMA PARTE

L’INVERNO

1.

Quarantasette anni dopo, 2015.

Un silenzio immoto e sommesso avvolgeva la camera, quando Marta si svegliò.Aprì gli occhi e udì il suono ovattato della quiete. Alcun rumore giungeva da fuori. Si stupì.Mise i piedi nelle pantofole e si drizzò. Attratta dal silenzio, andò alla finestra e la schiuse per far entrare la luce del giorno. Un chiarore puro la accolse e vi si abbandonò.

Vide le cose materiali sotto la coltre bianca, distesa sui campi al di là della siepe sulle case e le vie dirette verso il nulla. Si lasciò incantare da quella visione e dalla quiete tutt’intorno, ma non seppe dare nome alle emozioni dello spirito, giacché un silenzio oscuro e muto opprimeva il suo cuore.

Osservò a lungo il manto luccicante con lo stupore di una bimba. Dalle viscere della memoria emerse una melodia, legata al ricordo dei passi di una giovane madre su un sentiero innevato.

Camminava, costeggiando le siepi spinose del biancospino e, avvolta nello scialle, portava una neonata. La neonata intonava una poesia e quel canto riempiva le nubi cobalto sopra la terra.

Con quella nenia nella mente, Marta iniziò a prepararela colazione. Guardò l’orologio: erano le tre pomeri-diane. “Ho dormito troppo anche oggi” pensò.

Prese la solita dose di farmaci. Ingoiò la capsula rossa. Mandò giù la compressa gialla, insieme a venti gocce e da ultima la pastiglia oro-solubile. Miracolosa.

Mentre mangiava un biscotto, aprì il libro che aveva lasciato sul tavolo la sera precedente e iniziò a leggere.

Morire questo a un gatto non si fa.

Perché cosa può fare il gatto

in un appartamento vuoto?

Arrampicarsi sulle pareti.

Strofinarsi tra i mobili.

………………………

Qui c’era qualcuno, c’era,

e poi d’un tratto è scomparso,

e si ostina a non esserci.

In ogni armadio si è guardato.

Sui ripiani è corso.

…………………….

Si predisponeva psicologicamente al crescendo emotivo dei versi in attesa di quel finale:

Che provi solo a tornare,

che si faccia vedere.

Imparerà allora

che con un gatto così non si fa.

Gli si andrà incontro

come se proprio non se ne avesse voglia,

pian pianino,

su zampe molto offese.

E all’inizio niente salti né squittii.

che la commuoveva sino alle lacrime, quando ricevette una chiamata.

«Pronto.»

«Ciao, Marta», esordì una voce femminile.

«Vilma, che piacere. Come stai?» domandò, e il timbro vocale s’incrinò per l’emozione.

«Così…», l’altra esitò, ed emise un lungo sospiro. «Mi fanno male le gambe», si lamentò.

«E le cure? Stai prendendo le medicine?»

«I farmaci? Mah! Perquel che servono», sospirò.

«Sono inefficaci?» domandò Marta, incredula.

Avrebbe voluto altre informazioni sulla malattia, ma si trattenne per discrezione, e tacque dubbiosa.

«Ah, vivo in attesa… », non finì la frase «… dell’infermiera. Tra poco, verrà», riprese.

L’amica percepì un lieve ansimare. “È affaticata” pensò. “E molto sofferente.” Represse la commozione. «Mi dispiace.»

«È lunga.»

«Abbi fede.» Le fu impossibile aggiungere altro.

«Ah, la fede», sussurrò in un soffio. «Vivo nella speranza… Che cosa stavi facendo?» domandò.

«Leggevo.»

«Che cosa?»

«Le poesie della Szymborska.»

«Ah, tu leggi sempre», proruppe l’amica.

«Mi conforta.»

Vilma si schiarì la gola. «Dovresti scrivere», propose.

«Chi, io?» Marta si sorprese.

«Sì, tu», tossì. «Perchè non provi?» prese ad ansimare e la compagna attese finché il respiro ridivenne regolare. «Va meglio?» chiese, appena la tosse si placò.

«Sì. Sì», ripeté. «Vorrei vederti, Martina.» La pregò più volte in toni grevi.

«Anch’io, anch’io.»

«Verrai?» insistè.

Il tono della sua domanda la commosse. «Verrò, presto», promise.

«Quando? Dimmi», continuò l’altra, querula.

«Presto, appena il clima migliora. Ti farò sapere.» Pose nella voce un colore luminoso e sincero perrassicurarla.

«Sono contenta. Grazie. Ora, devo lasciarti, è arrivata l’infermiera. Un bacio», terminò.

«Ciao, a presto.»

Si accomiatarono. I pensieri di Marta indugiarono sulla sofferenza dell’amica e le impedirono di riprendere le sue letture. “Povera cara, sta male. Che sia un refolo o una tempesta le pene giungono a pungere. L’animo umano è in sintonia con la natura e il corpo. Sento che mi nasconde qualcosa.”

Depose i dubbi sulla salute dell’amica e pensò a se stessa. “Anch’io soffro. Dal mio cuore fluiscono pianti freddi” ammise, e ritornò alle poesie. Accese il computer per consultare le notizie meteorologiche su Internet. Sorseggiò il caffè e scorse la pagina web. Il motore di ricerca la indirizzò al risultato haiku sulla neve. S’incuriosì e aprì il collegamento. Comparve un breve componimento e lo lesse.

La pelle delle donne

Quella che celano

Quant’è calda!

Rimase affascinata da quei tre versi limpidi e intensi.L’haiku la trasportò verso una luce divina.

“La neve è sogno. Anch’io sono illusione evanescente.» Un brivido di panico corse dal ventre fino al cervello e dalla mente ritornò alle viscere.

“Esisto. In questo istante sono, e intanto la fioccata s’infittisce. Ah, quanto vorrei imparare a guardare il tempo che fluisce e a leggere i misteri nelle increspature dello spirito.”

A quel pensiero nel suo cuore accadde qualcosa d’insolito e sconosciuto: una lacrima risalì dal profondo, si staccò dalle ciglia e le solcò il viso. La terse coi polpastrelli e fu avvinta nello stupore di quell’attimo.

“Dormire. Voglio addormentarmi anch’io sotto la coltre spessa.” Quell’inspiegabile pianto le bagnò le gote e il recente desiderio si dilatò nel grande vuoto della sua anima imbiancata e muta. Prese un fazzoletto e asciugò le lacrime brucianti.

Fiocchi di neve

lucciole volteggianti

nel cielo muto

Avvertì la necessità di abbassare le palpebre e dormire. Dormire era l’unica occupazione da mesi. Nel dormiveglia le vennero in mente sette parole.

Anime bianche

nell’aria algida

spiriti eterei

***

Ella era in quella fase della vita in cui l’età conferisce alle donne una nuova bellezza. Era una donna imperniata nel tessuto del cosmo infinito. Era un mistero, un sogno, un’illusione. Aveva gli anni giusti per fermarsi a guardare lo scorrere dell’acqua nel fiume e ascoltare il suo gorgoglio armonico e discontinuo. Aveva gli anni giusti per conoscere il dinamismo dell’universo, ascoltare lo spirito, apprendere l’arte di creare con l’immaginazione e narrare l’indicibile.

Era tempo di ritrovare le suggestioni smarrite in qualche corrugamento del tempo. Chissà quando? e dove?

Ella aveva vissuto.Aveva provato un turbinio di emozioni da adolescente.Era stata felice.Aveva ballato la disco dance coi ragazzi giusti alloStudio cinquantaquattro di Milano e nei locali di via Como.Aveva appreso e insegnato.Aveva amato Maurizio e insieme avevano concepito Paola.

Un giorno, i colori erano sbiaditi, la fantasia era stata seppellita, e l’armonia era stata sopraffatta da mille frastuoni. Sentiva il nulla dentro di sé, era insensibile a ogni cosa. Esistevano la malinconia e l’indifferenza.

Scavami dentro

sino in fondo all’anima

troverai immensa

l’angoscia

e il dolore sommerso

nel segreto della marea.

Ora era il momento di perdersi e stare a guardare come il tempo si perde nel brivido dello spazio infinito. Era il momento di esplorare e descrivere il personale universo, poiché tanto aveva osservato, vissuto e sentito.Allo squillo, tese il braccio e prese il cellulare accanto alla tastiera.

«Pronto», esordì una voce maschile.

«Ciao, Roby. È un piacere, sentirti», asserì nel riconoscere l’amico. “Puntuale come tutti i giorni.”

«Martina, come va?» l’uomo tradì una sottile emozione.

«Male.»

«Devo preoccuparmi?» domandò ansioso.

Si pentì della sincerità con cui gli aveva risposto nell’intuire la sua pena. Il silenzio echeggiò fra loro.

«Ehi, basta sciocchezze», riuscì a dirle.

«Sono raffreddata», tagliò corto per evitare fatti rimossi. «Tu come ti senti?»

«Non mi lamento», fu la risposta laconica e poco convinta dell’amico.

«Raccontami qualcosa di te e dei colleghi», lo incoraggiò.

«Tutto normale.» Aggiunse, vago, un timido «Ci manchi», denso di pudore.

«Grazie. Sei in ufficio?» domandò, non sapendo che cos’altro dire.

«Sì. Sono in pausa. Beata te che sei a casa.»

«Questione di scelte», insinuò lei rassegnata.

«Alcuni hanno delle alternative», si lamentò Roberto,

alludendo alle recenti scelte dell’amica.

Lei lasciò cadere nell’indifferenza quelle parole e le labbra assunsero una piega cruda. Poi volle divagare dalla conversazionee pose la più banale delle domande.

«C’è tanta neve in centro?»

«Sì. È tutta ammucchiata sui marciapiedi, e continua a fioccare. Tra poco non si circolerà più.»

«Già. Milano imbiancata è affascinante», osservò lei.

«Lo pensi davvero?»

Marta avvertì una nota di disappunto ma, ugualmente, aggiunse. «Sì. I paesaggi innevati hanno qualcosa di magico. La nevicata purifica la natura.»

«Il paesaggio è meraviglioso. Però il ghiaccio è infido. Tradisce», obiettò lui secco.

Lei assentì e le passarono per la mente poche parole.

Lastra di ghiaccio

sofferenza remota

specchio di pena

«Ti ho disturbato?» proseguì Roberto coi modi di chi vuole cambiare discorso.

«No, consultavo le previsioni del tempo per i prossimi giorni. Devo partire, e vorrei sapere in quali condizioni saranno le strade. C’è il rischio di rimanere bloccata o di smarrirmi in una bufera.»

«Stai attenta.»

«Certo. Certo», ripeté lei, dubbiosa, giacché non lo aveva mai visto preoccuparsi per qualcuno, ancora meno peruna nevicata.

«Dove vai?» domandò.

«Andrò a trovare un’amica»

«La conosco?»

«No, no.»

«A parte il viaggio, cosa fai?»

«Dormo.»

«Ah, caspita», fece eco. «Dormi ancora tanto?» si preoccupò.

«Sempre. Il sonno è il mio padrone.» Lei sospirò, e un silenzio cupo e imbarazzante cadde fra loro.

Bianco inverno

riscalda il mio cuore

al dolce gelo

Fu Roberto a sciogliere la tensione. «Sapessi quanto desidero gioia e calore a ravvivare il mio spirito in questa giornata insulsa. Il mortorio bianco rende triste la mia vita», si lamentò, l’espressione nostalgica, cui Marta era disabituata e che poco gli corrispondeva.

«Mi dispiace», mormorò frastornata. Neppure per un istante suppose che l’amico potesse custodire un segreto. Tacque oppressa da un mutismo interiore sino ad allora sconosciuto. La recente aridità del cuore la rendeva incapace di riconoscere le emozioni. Nelle sue giornate c’erano il sonno e il pianto, privi di parole.

Inattesa gioia

la neve è una poesia

dice l’amante

Quella sera, al momento di coricarsi, ripensò a Roberto, l’amico finto estroverso, giunto a Milano una decina d’anni prima in seguito a un trasferimento da Pavia, della cui vita nessuno conosceva i particolari, neppure lei.

Di lui sapeva che era un celibe impenitente, propenso a scherzare con gli altri impiegati e le colleghe carine,purché non fossero troppo caustiche e permalose. Viveva da solo in un attico del centro, e non si accompagnava alla stessa donna più di tre volte.Ogni tanto faceva il filo anche a lei, ma lasciava perdere. «Non c’è gusto. È troppo acida», ripeteva alle sue spalle,accertandosi che lei lo udisse.

***

Trascorse una notte infernale.Il giorno seguente si svegliò con la febbre alta e la gola in fiamme, come se avesse ingoiato un barattolino di paprika. Lesse l’ora sullo schermo del telefono: erano letre del pomeriggio. “Ho dormito troppo.” Sentì un gran desiderio di dolcezza. “Ho bisogno di cure.” La intenerì il lato infantile emergente. “Vorrei la grande-mamma-buona a prepararmi qualche misterioso decotto. Ne aveva uno per ogni malessere.”

L’amore tuo di purezza vestito

scioglie il mio cuore dal caro sonno,

come cioccolata bianca il calore

Avvertì nelle narici il profumo dolciastro degli antichi miscugli che la scaldavano da bambina e lenivano la faringite, se l’influenza la tormentava nel letto, durante le interminabili nottate invernali. Riassaporò l’intruglio d’erbe fatto di radici, gramigna, camomilla, malva, miele e qualche magia materna e ne rimpianse il gusto intenso dalla consistenza pastosa.L’odore si dissolse nelle reminiscenze, e lei fu presa dalla nostalgia dei giorni in cui si sentiva amata. Un pianto silenzioso e intimo inumidì le guance.”Piango. Perché, se il mio cuore non prova niente?” si chiese, ignorando il potere degli occhi di piangere per imali dello spirito, oltre il senso del dolore. Con un grande sforzo vinse la vischiosità del sonno, gettò indietro le coperte, e sedé sul materasso, le gambe fuori dal letto. Mise le babbucce di lana e a passi lenti raggiunse la finestra, e ne spalancò le imposte.

L’intenso riverbero della luce trafisse le pupille, indebolite dalla febbre. Dischiuse la palma, schermò la vista e si allontanò dai vetri.Andò in cucina, tastoni, come un automa.Tolse una tazza di porcellana dalla credenza e la riempì d’acqua sotto il getto del rubinetto. Gli schizzi gelidi la fecero rabbrividire, e i cristalli smisero di scavarle le gote e le viscere.Pose la tazza nel forno a micro onde.Chiuse lo sportello. Pigiò il tasto avvio, e attese. Uno. Due. Tre minuti. Attese in piedi, fissando il piatto rotante, insensibile al mondo interiore e a ogni bellezza, finché l’allarme suonò. Attraverso il cristallo del forno vide le grosse bolle sulla superficie dell’acqua.

“Vietata la malinconia. Devo accontentarmi di un miscuglio granulare di erbe” si confortò, mentre miscelava il decotto fitoterapico emolliente e antitussigeno.

Ingoiò diligente l’abituale dose mattutina di farmaci.Giù la capsula rossa.Giù la compressa gialla, venti gocce di felicità e da ultima la pastiglia Oro-Solubile-Miracolosa.

Il mio risveglio è uno stupore bianco

la neve, che meraviglia stamane

mi rincantuccio all’amato fianco

Emise un profondo sospiro e rimpianse i tempi in cui amava ed era amata. Maurizio le portava la colazione a letto, e preparava tisane per lei. Si abbandonò ai ricordi e di nuovo il vuoto invase l’intimo, frigido di sentimenti.Attese finché si ripresentò quella strana stanchezza anticipatoria del sonno senza riposo.Le gambe si fecero prima molli, poi pesanti.Lo stomaco divenne una caverna gelida e nel petto, oppresso da un peso sfiancante, le pulsazioni cardiache si susseguirono lente e sorde.Le braccia si afflosciarono come stracci sullo scrittoio ai lati del computer. Le mani rimasero indifese, abbandonate sul ripiano scuro di palissandro.La mente si svuotò e divenne piombo.

“Sono addormentata dentro. Sono morta” ripeté, avviandosi. Appena fu nella stanza, il terrore subliminale di spiccare un volo nel cielo la costrinse a serrare le ante delle finestre. Chiuse il tramonto fuori casa e, intanto, il pianto bruciava la pelle.

“È tutto un sogno. È solo un malefico scherzo, una finzione della mente” pensò, infilandosi nel letto.

Tirò le coperte fin sul capo e si sentì al sicuro. La metafora del salto nel vuoto si dissolse, i tremiti siplacarono e si rifugiò nel sonno, dove nulla di male poteva accaderle.Dormì.

***

Quando si svegliò, era l’ora in cui la folla andava a dormire.

“Ho fame” fu il primo pensiero.

Ella viveva in funzione dei propri bisogni fisiologici:dormire, mangiare, dormire, andare in bagno, nutrire il corpo. Evitare di pensare.

Prima di aprire il frigorifero, volle leggere i messaggi. Accese il computer e vide le e-mail, ma non provò gioia. Mangiucchiò dei biscotti morbidi e bevve un bicchiere di latte fresco.

Le parve di udire uno stimolo che la incitava a fare qualcosa, ma era solo un’eco lontana e non capì che cosa. La necessità di dormire prevalse su tutto e tornò in camera. Si distese fra le coperte e fu presa da un torpore letargico, simile a un sonno infinito e sfibrante.

Questa nuova immobilità la intristiva fino alla melanconica. Tutte le forze provavano a combattere e a soffocare lo struggimento, ma il male buio riemergeva in maniera prepotente, e si ripresentava in forme insospettabili. Il dolore vinceva per qualche ora la sospensione della coscienza, come un piccolo antidoto all’immobilità del sonno.

Nelle pause accordatele dal suo padrone, Marta leggeva. La lettura era un barlume di vita contro il torpore e l’inerzia.

“Finirà mai questa lunga indigestione di strazio e sonno?” ripeté, disperdendosi nell’oppressione faticosadella sonnolenza.

Il nuovo giorno fu identico al precedente.Si svegliò alle tre del pomeriggio.Mise ai piedi le pantofole, e si diresse alla finestra.Spalancò le imposte e la luce sprofondò nelle sue iridi ad asciugarne il pianto aggrumato.Accostò le ante a vetro e chiuse fuori la neve, lo stupore dei ghiaccioli, vitrei ornamenti penduli alle grondaie, e il sole che avvolgeva tutto anche la camera.

Preparò la colazione. Sistemò la tovaglietta nell’angolo in cui sedeva, quand’era felice insieme alla sua famiglia, e la lisciò.

Occupare il posto di Maurizio o quello di Paola le era ancora impossibile.

Mise la caffettiera sul fornello a gas e la scodella piena di latte nel micro-onde. Mentre aspettava il gorgoglio della macchinetta e il bip, bip, bip del forno, inghiottì il quotidiano miscuglio di droghe per la sensibilità affettiva.

Giù la capsula rossa. Giù la compressa gialla, venti gocce di fiele e da ultima la pastiglia oro-solubile-non-miracolosa.

Mangiò senza assaporare il gusto del cibo, ma almeno la gola non bruciava più, e la tosse si era placata.

“La neve affascina, ma non la si può amare troppo, perchè uccide”, decise Marta. “È come l’amore. Troppo annienta l’amante sprovveduto.”

Le venne in mente Angelica, La Fata Fragile, succubedi un amore malato. “Alcuni innamorati non riescono a sottrarsi al fascino dell’eros, le cui tinte oscure si fondono alle sfumature di Thànatos. Lei è una di queste” considerò. “Ama troppo la Neve e il figlio della Notte. È sofferente. Le ferite sono ancora vive.”

La Fata dei Fiori soffriva di depressione e amava la poesia, come lei. La poesia, l’arte e i fiori erano la loro salvezza.

Il lato oscuro

sepolto nella notte

luce d’abisso

***

Buone vacanze e buon ferragosto a tutti gli amici di WP. 🌞🍉

 

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